lunedì 2 novembre 2015
Il ricordo dei nostri cari defunti- Cit. Carlo Maria Martini
Con queste parole gravi il Concilio Vaticano II descrive l’ansietà e la povertà dell’uomo di fronte al mistero della morte. E noi siamo chiamati ad avvicinarci a questo mistero, e ad avvicinarci ad esso non come ad una realtà astratta, ma come a qualcosa che ha creato strappi dolorosi nella nostra carne, nella vita di ciascuno di noi. Ricordiamo infatti i nostri defunti, i nostri cari che ci hanno lasciato. Per ciascuno di noi sono nomi, persone, volti, parole care che ritornano alla mente, che riempiono la memoria dei giorni passati insieme, dei luoghi animati da presenze care e amate.
Anche i grandi Santi hanno vissuto lo strazio di queste separazioni. Agostino ha descritto con parole ancora vive la sofferenza da lui provata alla morte della madre. Ci dice: «Mentre le chiudevo gli occhi, una tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime. Ma cos’era dunque – si domanda – che mi doleva dentro gravemente se non la recente ferita derivata dalla lacerazione improvvisa della nostra così dolce e cara consuetudine di vita comune?».
Se dunque per i Santi le separazioni dolorose possono essere così penetranti, tali da spezzare il cuore, che cosa non sarà per ciascuno di noi e come non provare pena nel rivivere questi momenti di dolore e di separazione?
Ma i grandi Santi ci mostrano anche la via aperta all’uomo nel mistero della morte. È la via della Pasqua di Cristo che con la sua morte ha distrutto la nostra morte,con la sua risurrezione ha fatto a noi dono della vita.
E noi ricordiamo i nostri defunti non soltanto nella mestizia della separazione, ma li ricordiamo rivivendo il passaggio di Cristo nella morte, e attraverso la morte, alla vita, perché in questo stesso Cristo i nostri defunti vivono e vivranno. I nostri morti sono con noi e vivono con noi e li possiamo sentire uniti alla nostra preghiera. Essi ci parlano nella parola di Gesù, essi sono presenti con noi nella consolazione che il Signore ci dà.
Da "Sulle strade del Signore" Carlo Maria Martini, meditazioni per tutti i giorni 2 novembre
mercoledì 25 marzo 2015
Preghiera del Cardinal Martini alla "Vergine dell'Annunciazione"
rendici, ti preghiamo, beati nella speranza,
insegnaci la vigilanza del cuore,
donaci l'amore premuroso della sposa,
la perseveranza dell'attesa,
la fortezza della croce.
Dilata il nostro spirito
perché nella trepidazione
dell'incontro definitivo
troviamo il coraggio di rinunciare
ai nostri piccoli orizzonti
per anticipare, in noi e negli altri,
la tenera e intima familiarità di Dio.
Ottienici, Madre, la gioia di gridare
con tutta la nostra vita:
"Vieni, Signore Gesù, vieni, Signore
che sei risorto,
vieni nel tuo giorno senza tramonto
per mostrarci finalmente e per sempre il tuo volto".
Carlo Maria Martini
giovedì 20 novembre 2014
Per entrare in preghiera contemplativa di fronte alle beatitudini, il regno e la giustizia
Incominciamo a riflettere sull’insieme del brano delle Beatitudini, conosciuto anche dai non cristiani; sappiamo, ad esempio, che Gandhi lo citava spesso, e così pure altri personaggi del mondo non cristiano.
Quante solo le Beatitudini secondo Matteo?
Talora si risponde che sono otto, ma se le contiamo attentamente ci accorgiamo che in realtà sono nove:
Introduzione agli esercizi spirituali sulle beatitudini
Desideriamo compiere insieme l’esercizio della lectio divina sulla pagina del vangelo di Matteo che inizia il grande discorso della montagna Mt 5,1ss. Il tema è dunque quello delle Beatitudini, e vorrei ricordare che facendo la lettura pregata della parola di Dio siamo convinti di obbedire al Vaticano II che, nella Costituzione dogmatica Dei Verbum afferma: Il Santo Sinodo esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli … ad apprendere la sublime scienza di Gesù Cristo, con la frequente lettura delle divine Scritture (DV 25).
Lo scopo che ci proponiamo, perciò, è di apprendere la sublime scienza di Gesù, di riconoscere il cuore di Cristo, il mistero della sua vita nella storia, nella Chiesa, in noi. E chiediamo alla Madonna, che ha contemplato da vicino tale mistero, soprattutto quella della povertà, dell’umiltà, della misericordia di Gesù, di aiutarci a entrare nel significato profondo delle parole evangeliche.
Carlo Maria Martini
giovedì 23 ottobre 2014
Ecco cosa chiamo amore!
Amore è dunque incontrare un'altra persona scambiandosi dei doni, è esperienza in cui si dà qualcosa di sé e c'è più amore quanto più si dà qualcosa di sé. L'amore è un incontro in cui l'altro ci appare importante, in un certo senso più importante di me: cosi importante che, al limite, io vorrei che lui fosse anche con perdita di me.
Uno scopre di essere innamorato quando si accorge che l'altro gli è divenuto, in qualche modo, più importante di se stesso. Per questo l'amore realizza qualcosa che potremmo quasi chiamare un'estasi, un uscire da sé, dal proprio peccato, dal proprio tornaconto, dalla cura affannosa per la propria vita: una sorta di estasi in cui io mi sento tanto più vero e tanto più autentico, tanto più genuinamente "io" quanto più mi dono, mi spendo e non mi appartengo più in esclusiva.
Non c'è quindi nell'amore una perdita dell'io ma un farsi autentico dell'io nell'uscire da sé verso il tu. Risuona qui la parola evangelica: "Chi perde la sua vita, la troverà"».
Carlo Maria Martini, Aprite le porte a Cristo amore, 4-5
giovedì 10 luglio 2014
Gli esercizi spirituali biblici secondo il card. Martini
Così il card. Martini ha riassunto la sua straordinaria esperienza pluriennale di predicatore:
"Gli esercizi spirituali biblici sono la grande esperienza che mi ha dato molto. In tantissime parti del mondo, non solo in diocesi, ho dato esercizi spirituali dove ogni volta, pur mantenendo la struttura di sant’Ignazio che mi è molto congeniale, prendevo come tema un libro o un personaggio della Bibbia: Davide, Abramo, Mosé, il Vangelo di Marco, Paolo, Pietro... Cercando per una settimana di penetrare insieme agli ascoltatori il testo relativo. E ho sempre voluto cambiare libro proprio per non ripetermi, perché è odiosissimo ripetersi – per me almeno – e l’idea era di essere stimolato ogni volta, anche se non avevo tempo, a studiare molto, a mettermi di fronte a un nuovo libro biblico e a cercare di penetrarlo non tanto in una lectio esegetica continua, ma cercando il dinamismo interno di conversione che il libro suscita. Anche questo è un tipo di ricerca interessante.
Si tratta di un’altra esperienza che ho fatto in tante parti del mondo perché ho cercato di dare almeno un corso nel mese di luglio, quando a Milano per il troppo caldo non c’è più nessuno; sono andato in Ciad, in Zaire, in Giappone, a Taiwan, in Messico, in Venezuela, negli Stati Uniti, ogni volta dando un corso di esercizi con un tema diverso. In questo mi ha aiutato molto vedere che, pur parlando a culture diversissime da Taiwan a Tokyo, a Guadalajara, a Caracas, in California, tuttavia la Scrittura parla ovunque; non mi sono mai sforzato di fare chissà quale salto culturale, mi sono detto: «Prendo la Scrittura». E la Scrittura è così umana, così profonda, tocca così profondamente le corde intime del cuore che viene ascoltata ovunque. È stata un’esperienza molto bella, arricchente; io stesso – come dice san Gregorio Magno – ho imparato molto spiegando così la Scrittura. Perché allora diventava nuova anche per me".
venerdì 21 febbraio 2014
Maria, segno di benedizione
Nelle omelie e nelle preghiere del card. Martini non manca mai un accenno alla Madonna, chiedendo una sua intercessione.
Riporto una omelia, che è' un ottimo spunto di meditazione su Maria, segno di benedizione
Dalle “maledizioni” umane, alla partecipazione della “benedizione” di Maria
In questa festa liturgica della Madonna ascoltiamo una pagina della Scrittura che è davvero impressionante.
Mi ha colpito perché in essa c’è, per la prima volta nella Bibbia, la parola della maledizione: Maledetto il serpente più di tutte le bestie selvatiche (Gn 3, 14).
La maledizione del serpente è simbolo della maledizione di tutte quelle cose che rovinano gli uomini.
Mi ha colpito perché penso
a quante altre volte la parola «maledizione» è stata, da allora, ripetuta,
a quante volte sono state lanciate nel mondo delle maledizioni gli uni contro gli altri,
a quante volte siamo giunti a maledire noi stessi e addirittura a maledire Dio.
A partire dal racconto che la Scrittura ci riporta,
il segno doloroso del peccato e della tristezza
è entrato nel mondo e, per così dire, ci perseguita.
Forse non arriviamo sempre a pronunciare quella parola
ma ci sono tante cose in noi, intorno a noi,
nella società che non vanno,
che noi non vogliamo e che suscitano in noi un moto di ribellione.
Ci ribelliamo contro noi stessi perché non siamo sempre ciò che vorremmo essere;
ci ribelliamo contro gli altri che riteniamo la causa di ciò che in noi non va;
ci ribelliamo anche contro Dio perché non sappiamo capire quanto Dio ci ama.
È, dunque, una parola terribile che si riproduce nella storia umana,
così come si riproduce il peccato.
È il peccato la vera causa di tutte le scontentezze, di tutte le tristezze,
di tutte le guerre, di tutte quelle cose che sono in realtà la maledizione dell’uomo.
Ed ecco che il Vangelo ci porta il ricordo delle parola contraria alla maledizione:
«Benedetta tu, benedetta tu tra le donne!» (Lc 1, 42).
Questa parola rivolta alla Madonna è simbolo del meglio di noi stessi.
Noi siamo chiamati non a maledire noi stessi e gli altri:
noi siamo chiamati in realtà a benedire Dio,
a benedire la vita, a benedire il futuro.
La Madonna è il simbolo di tutto questo,
è il simbolo di tutte quelle cose che noi vorremmo essere,
è il simbolo di quello che vorremmo che il mondo fosse,
che vorremmo che gli altri fossero, che vorremmo che fosse la società.
Pregando oggi la Madonna noi preghiamo, quindi,
col meglio di noi stessi, con tutto ciò che di bene c’è in noi.
Preghiamo perché questo bene si allarghi,
preghiamo perché ciò che in noi è magari soltanto uno spazio di luce
diventi più largo,
preghiamo perché ciò che in noi è uno spiraglio di serenità cresca.
Possiamo augurarci che la Madonna entri nella nostra vita con la sua benedizione
in modo da poter dire, in tutta verità:
benedetta sei, o Maria, tra tutte le donne!
Fammi partecipe della tua benedizione,
fa’ che anch’io senta quanto c’è in me
che può diventare parte della tua benedizione!
Carlo Maria Martini, Solennità dell’Immacolata Concezione
mercoledì 7 marzo 2012
Silenzio: tendere l'orecchio per percepire qualcosa della voce del Padre
Forse la gente prega e riflette più di quanto non sappia o non dica. Si tratta di aiutarla a dare un nome più preciso, un indirizzo più costante, a certe impennate del cuore che, più o meno intensamente, sono presenti nella storia di ognuno. L’esodo massiccio dalle città nei periodi di vacanza e nei fine settimana esprime in fondo anche questo desiderio di ritorno alle radici contemplative della vita.
giovedì 1 marzo 2012
Penetrare nel mistero del "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?"
Eppure è proprio ascoltando questa parola che il centurione esclama: "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!". Ovviamente l'evangelista legge in quel grido di Gesù la fedeltà di Dio.
sabato 18 febbraio 2012
L'esercizio dell'autorità del Vescovo: rischi e suggerimenti secondo il card. Martini
Alcuni difetti portano grande danno al servizio del vescovo: l'autoritarismo e la rigidità. Autoritario è quel vescovo che in nessun caso ammette il dialogo né ascolta i suoi consiglieri, ma fa tutto quello che gli viene in mente non accettando nessun consiglio (pur magari vendono chiesto). In tal modo rompe i legami che già si erano creati con il suo successore e si sente non solo vescovo, ma papà e re della sua diocesi. Se poi è di temperamento collerico, allora non risparmia nessuno con le sue esternazioni. (35-36)
Il governare nella Chiesa va esercitato su uomini liberi, che sono però capaci di lasciarsi ispirare dall'amore. Una tale autorità non comprime le coscienze ma le fa crescere facendole conformare al modello della Trinità.
È a questo punto che mi sentirei di menzionare brevemente alcune caratteristiche dell'uso dell'autorità nella chiesa che mi sembrano particolarmente importanti per il nostro tempo. Indicherei le tre seguenti: il rispetto della persona, della sua autonomia e della sua intelligenza. A questo proposito sono sempre meno coloro che accettano di lasciarsi gare ciecamente dalla pura autorità, anche se non mancano rigurgiti di fondamentalismo fanatico. Mi pare però che venga d ai numero sempre crescente di persone, anche nel cristianesimo, il desiderio di capire, di comprendere, le ragioni di quanto chiede l'autorità.
L'attenzione alla singolarità della persona, alla sua irripetibilità e incomparabilità e alla sua debolezza, hanno effetti molto più duraturi anche davanti a richieste esigenti. Molti hanno bisogno di essere capiti e amati prima di essere guidati con comandi e precetti. Nel contempo si sente oggi un grande bisogno di sicurezza, di appoggio e di forza ispiratrice. Per questo mi pare che la Parola di Dio ispirata e ispirante abbia un grande rilievo nell'odierno esercizio dell'autorità nella chiesa. (49-50)
giovedì 16 febbraio 2012
Mutui rapporti tra i vescovi e i religiosi, con postilla sui movimenti
Riporto come esempio tre ficcanti pensieri a proposito delle congregazioni religiose. Il primo di essi amplia la notazione critica anche ai movimenti laicali cattolici.
"Si tratta di relazioni mutue, che quindi richiedono disponibilità da ambo le parti. E ciò anzitutto perché i religiosi, in particolare gli ordini religiosi e le congregazioni maschili, si sentono giuridicamente "esenti" dall'autorità del vescovo e quindi in grado di lanciare iniziative che possono collidere con il programma pastorale della diocesi. (...)
Lo stesso si deve dire anche dei movimenti, con la differenza che spesso i religiosi sono più obbedienti mentre i movimenti sfuggono a un rapporto speciale col vescovo. I movimenti, a cui accenno qui brevemente, sono per lo più un falso nome che viene dato a gruppi organizzati sotto una autorità molto esigente e quasi dispotica.
...
Come seconda cosa direi che tutti i religiosi, pur con le diversità che li caratterizzano, sono chiamati alla testimonianza del Vangelo della misericordia. È ciò che li qualifica come veri religiosi, non un imputazione puramente esteriore di un titolo o di un abito. Ne segue che non tutti coloro che si fanno chiamare religiosi sono veramente tali. Ricordo che la prima volta che incontrai (da vescovo n.d.r.) la rappresentanza dei religiosi, tutti gli interventi furono su questioni i rivendicazioni canoniche e su problemi giuridici. Alla fine dissi: "Dal vostro parlare non ho recepito niente di ciò che costituisce la sostanza della vita consacrata".
Terzo: non bisogna pensare che la pastorale diocesana parta solo dalla curia. Ogni iniziativa che abbia l'approvazione del vescovo è "diocesana". Il vescovo e il vicario generale devono avere una visione di Chiesa ampia e capace di integrare tutti".
domenica 4 dicembre 2011
Quattro spazi funzionali ad un ideale di città
Non mi riferisco a una città ideale ma a un ideale di città: una città nella quale ci sono spazi per quell'azione dello Spirito che fa da contrasto al lievito e al fermento di Babilonia, di Sodoma, e di Gerico e conduce verso la Gerusalemme che speriamo.
Questi spazi sono di diversi tipi.
Anzitutto sono spazi di silenzio, anche nel centro della città. Emblematico, in questo senso, è il Duomo di Milano, costruito come icona della Gerusalemme celeste, ma con i pilastri piantati nella terra, come invito perenne a elevare in alto il cuore e la mente. Come il Duomo, ci vorrebbero tanti luoghi propizi al silenzio, alla riflessione, all'ascolto.
Dopo il silenzio e l'ascolto occorre il dialogo. Per questo ci vogliono le piazze, le agorá in cui la gente si possa ritrovare per capirsi e scambiarsi i doni intellettuali e morali di cui nessuno è privo.
In terzo luogo ci vogliono le vie percorribili in tutti i sensi, cioè tutte quelle reti di relazioni che si coagulano in amicizie e accoglienze e che, se autentiche e profonde, raggiungono anche persone diverse per cultura, razza e confessione religiosa. Mi colpisce a tale proposito come già il mondo classico fosse sensibile a questo aspetto e definisse la città anzitutto come un luogo di amicizia. (...) Aristotele osa affermare che "quando si è amici, non c'è affatto bisogno della giustizia, mentre, anche essendo giusti, si ha bisogno dell'amicizia, e il punto più alto della giustizia sembra appartenere alla natura dell'amicizia". Ciò mostra che la speranza di restaurare i rapporti in una città solo sulla base della giustizia, che pure è una delle virtù più alte, è insufficiente, perché c'è un fondamento di concordia umana che sta al di sotto e sostiene tutti gli sforzi successivi per stare insieme e dare a ciascuno il suo.
Quarto luogo o situazione: l'intercessione e l'ospitalità. Unisco le due realtà così come le unisce l'episodio di Abramo che accoglie i tre misteriosi pellegrini davanti alla sua tenda e intercede presso di loro -di fatto presso Dio-, perché Sodoma si salvi (Cfr. Gen 18-19). Ospitalità a Dio e allo straniero sono realtà misteriosamente connesse lungo tutta la Scrittura. Si afferma così un misterioso rapporto tra ospitalità allo straniero e operosità per la pace nel mondo.
Coi mezzi sopra indicati, e con molti altri che si potrebbero ricordare, non intendo dire che avremmo una città ideale, ma che saremmo in cammino verso una città che ancora non c'è e apriremmo gli occhi per vedere, sotto le sembianze di Babele, anche quella Gerusalemme che è già tra noi e di cui già abbiamo avuto esempi concreti e significativi.
venerdì 2 dicembre 2011
La città: il luogo nel quale imparare a vivere e costruire lo Shalóm
Egli ricordava infatti che il cammino umano non è descritto nella Bibbia come un cammino verso un "paradiso", nel senso originario di "giardino", "giardino delle delizie", anche se da esso parte l'umanità. La meta del cammino umano non è né un giardino né la campagna, ma la città.
É la città descritta nell'Apocalisse (cap.21-22)
La città ideale, meta del cammino umano ha in sé il meglio del paradiso originario, il fiume dell'acqua e l'albero della vita; tuttavia è una città, un luogo dove gli uomini vivono in un intreccio di relazioni molteplici e costruttive.
É una visione che può sembrare utopica, aerea, astratta. Essa è tuttavia un monito che ci inchioda alla città. Il nostro cammino, il nostro ideale non è quello di un week-end di fuga verso l'aria pulita dei monti e delle campagne, verso la solitudine e il silenzio, ma verso il formicolio delle genti radunate insieme per una grande festa.
L'antitesi della città biblica non è la campagna, ma il deserto che tutto divora e tutto distrugge; dunque, la scelta è: o il deserto o la città.
Volendo tradurre laicamente quanto ho tentato di dire fin qui in termini biblici direi che per superare le maledizioni e fatiche della città e per leggere dentro di essa la presenza di non poche benedizioni come pure di non poche gioie sincere, non occorre necessariemente avere davanti agli occhi una città ideale, ma almeno un ideale di città. Una città fatta di relazioni umane responsabili e reciproche, che ci stanno dinnanzi come un impegno etico. Allora la città diventa un'occasione, anzi una miniera inesauribile di possibilità di intessere relazioni autentiche, sia con lo strumento del gesto costruttivo o propositivo, sia -e forse ancora di più- con lo strumento del gesto dell'accetazione, dell'ospitalità, della riconciliazione e persino del perdono.
(...)
La città non è, dunque, il luogo da cui fuggire a causa delle sue tensioni, dove abitare il meno possibile, ma luogo nel quale imparare a vivere. Tutta la storia della Gerusalemme biblica è una storia del conflitto tra il deserto che la minaccia l'ideale di pace che la muove e la sostiene da tremila anni perché non si stanchi di ricercare lo Shalóm anche in mezzo a tutte le contraddizioni che sembrerebbero mostrare l'impossibilità della pace.
Carlo Maria Martini, Verso Gerusalemme, 2002, Feltrinelli, pp. 21-23
lunedì 25 aprile 2011
Il senso della Pasqua per chi non crede
Per questo vorrei che la Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello «star bene» come principio assoluto. Vorrei che il saluto e il grido che i nostri fratelli dell’Oriente si scambiano in questi giorni, «Cristo è risorto, Cristo è veramente risorto», percorresse le corsie degli ospedali, entrasse nelle camere dei malati, nelle celle delle prigioni; vorrei che suscitasse un sorriso di speranza anche in coloro che si trovano nelle sale di attesa per le complicate analisi richieste dalla medicina di oggi, dove spesso si incontrano volti tesi, persone che cercano di nascondere il nervosismo che le agita.
La domanda che mi faccio è: che cosa dice oggi a me, anziano, un po’ debilitato nelle forze, ormai in lista di chiamata per un passaggio inevitabile, la Pasqua? E che cosa potrebbe dire anche a chi non condivide la mia fede e la mia speranza? Anzitutto la Pasqua mi dice che «le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rom 8,18). Queste sofferenze sono in primo luogo quelle del Cristo nella sua Passione, per le quali sarebbe difficile trovare una causa o una ragione se non si guardasse oltre il muro della morte. Ma ci sono anche tutte le sofferenze personali o collettive che gravano sull’umanità, causate o dalla cecità della natura o dalla cattiveria o negligenza degli uomini.
Bisogna ripetersi con audacia, vincendo la resistenza interiore, che non c’è proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con fiducia. In occasione della Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne».
Tutto questo richiede una grande tensione di speranza. Perché, come dice ancora san Paolo, «nella speranza noi siamo salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza» (Rom 8,24). Sperare così può essere difficile, ma non vedo altra via di uscita dai mali di questo mondo, a meno che non si voglia nascondere il volto nella sabbia e non voler vedere o pensare nulla. Più difficile è però per me esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. In questo mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa, che le aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (Lettera ai Romani, 4,18), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto.
È così che molti uomini hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 o dopo l’inondazione di New Orleans provocata dall’uragano Katrina nell’agosto successivo. Si pensi alle energie di ricostruzione che sorgono come dal nulla dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole che la ventottenne Etty Hillesum scrisse il 3 luglio 1942, prima di essere portata a morire ad Auschwitz: «Io guardavo in faccia la nostra distruzione imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava già in molti momenti ordinari della nostra vita quotidiana. È questa possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità. La possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione». Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento tecnico: al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni. L’interrogativo è invece sul senso di quanto sta avvenendo e più ancora sull’amore che è dato di cogliere anche in simili frangenti. C’è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita persino nella debolezza, che mi dice «io sono la vita, la vita per sempre».
O almeno c’è qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando mi sembra che tutto sia perduto. È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro la possibilità di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale.
La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.
domenica 6 febbraio 2011
Chi è Timoteo? Profilo di un giovane responsabile di comunità
Timoteo, a differenza di Barnaba e di Marco, non ha mai avuto contrasti con l'Apostolo perché, da quell'uomo devoto che era, si piegava volentieri al carattere non facile del maestro. È importante la virtù di saper collaborare con persone difficili. Si ha anzi l'impressione che Timoteo corregga in qualche modo la durezza di Paolo, che metta pace e infonda calma pur portando il peso di una responsabilità in seconda posizione.
Tuttavia anch'egli ha il suo lato debole: è fragile, avverte la solitudine quando rimane solo, si sente frustrato e indeciso, ed è bello, a mio avviso, specchiarsi nei suoi doni e nei suoi momenti di difficoltà, di prova.
C. M. Martini, La via di Timoteo, p. 12-13
domenica 1 agosto 2010
Educare oggi, educare ancora, ma educati da Dio stesso
Nei testi del cardinale Carlo Maria Martini qui raccolti e presentati dal prof. Franco Monaco non si legge un'unica teoria dell'educazione, ma si respira una sapienza applicata all'azione educativa da parte di un maestro di vita spirituale. L'assunto è che Dio educhi il suo popolo e che l'educatore si lasci condurre da questa pedagogia divina.
Scrive Martini: "Sento parlare di emergenza educativa, di sfida educativa, di programmi pluriennali di formazione... Questo mi ricorda un momento particolare di “illuminazione” o “insight” che ebbi verso l’inizio del decennio degli anni ’80. Stavo recitando le Lodi mattutine… Mi colpì il primo cantico, che riproduceva una parte del grande inno con cui Mosè chiude il libro del Deuteronomio. Diceva a un certo punto così: ‘Porzione del Signore è il suo popolo, sua eredità è Giacobbe. Egli lo trovò in terra deserta... lo educò, ne ebbe cura…’. Mi colpì in particolare l’espressione lo educò… Fu quella per me una intuizione decisiva. Vidi come il tema dell’educare non consista tanto nel darsi da fare dell’uomo per tirar fuori qualcosa dai suoi simili, ma anzitutto nel darsi da fare di Dio per educare il suo popolo e per educare i singoli del suo popolo. Mi parve allora che tutto il nostro programma educativo futuro avrebbe dovuto ispirarsi a questa azione di Dio educatore".
venerdì 18 giugno 2010
Preghiera dell'essere
Signore, tu sai che io non so pregare, e allora come posso parlare ad altri della preghiera?
Come posso insegnare ad altri qualcosa sulla preghiera?
Tu solo, Signore, sai pregare.
Tu hai pregato sulla montagna, nella notte.
Tu hai pregato nelle pianure della Palestina.
Tu hai pregato nel giardino della tua agonia.
Tu hai pregato sulla croce.
Tu solo, Signore, sei il maestro della preghiera.
E tu hai dato a ciascuno di noi, come maestro personale, lo Spirito Santo.
Ebbene, soltanto nella fiducia in te, Signore, Maestro di preghiera, adoratore del Padre in Spirito e verità,
soltanto con la fiducia nello Spirito che vive in noi,
possiamo cercare di dire qualcosa, di esortarci a vicenda,
per scambiarci qualche tuo dono, rispetto a questa meravigliosa realtà.
La preghiera è la possibilità che noi abbiamo di parlare con te, Signore Gesù, nostro salvatore,
di parlare con il Padre tuo e con lo Spirito,
e di parlare con semplicità e verità.
Madre nostra Maria, maestra nella preghiera, aiutaci, illuminaci, guidaci
in questo cammino che anche tu hai percorso prima di noi,
conoscendo Dio Padre e la sua volontà.
giovedì 17 giugno 2010
Carlo Maria Martini, “Qualcosa di personale. Meditazioni sulla preghiera”
Queste, e altre difficoltà che possiamo avvertire, credo vadano superate portando tutto ciò che abbiamo dentro nella preghiera. Se non facessimo così, la nostra non sarebbe una preghiera vera, ma artificiale, separata dalla vita. Nel silenzio e davanti a Dio, esprimiamo cio che proviamo, persino la difficoltà di metterci di fronte a Lui e di conoscere il Dio rivelatosi in Gesù Crocifisso.
Possamo inziare dicendo:
Signore, Dio misterioso, noi ti conosciamo così poco!
A volte, poi, abbiamo l'impressione di conoscerti ancora meno.
Ci sembra di lottare con te, come Giacobbe lottò con l'Angelo;
ci sembra di lottare con l'immagine che abbiamo di te.
Non possiamo comprenderti, non riusciamo a capirti.
O Signore, svela il tuo Volto, manifesta a noi il Volto del tuo figlio crocifisso.
Fa' che in questo Volto noi possiamo capire qualcosa delle sofferenze che si abbattono su tanta parte dell'umanità.
Fa' che possiamo conoscerti cone tu veramente sei, nel tuo Figlio crocifisso per noi, nella sua morte, nella sua agonia e nella sua risurrezione alla vita.
Amen.
pag. 9-10
sabato 12 giugno 2010
Avvenire pubblica oggi un commento del card. Martini all'episodio evangelico dell'unzione di Betania
ANTICIPAZIONE: Gesù e il profumo di resurrezione
«Mentre Gesù si trovava in Betania, in casa di Simone e il lebbroso, gli si avvicinò una donna con un vaso di alabastro di olio profumato molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre stava a mensa. I discepoli, vedendo ciò, si sdegnarono e dissero: "Perché questo spreco? Lo si poteva vendere a caro prezzo per darlo ai poveri!". Ma Gesù, accortosene, disse loro: "Perché infastidite questa donna? Essa ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi, me, invece, non sempre mi avete. Versando quest’olio sul mio corpo lo ha fatto in vista della mia sepoltura. In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei"».
Vedi il testo del commento.
martedì 4 maggio 2010
"S’il vous plaìt mon père": il card. Martini risponde ai giovani africani
Il card. Martini ha risposto affettuosamente e brevemente.
Ecco, in esclusiva su questo blog il testo della "conversazione".
Carissimo don Alberto,
Solo ora posso prendere in mano le tue domande. Non è che abbia molto da fare, ma la mia capacità di lavoro è molto limitata e quindi ci metto molto tempo a fare le cose. Ma ho pensato spesso a voi e mi congratulo con i giovani per le loro domande. Cercherò di rispondere tenendo presente l’ordine con cui tu le proponi.
1. Perché ha scelto la strada del sacerdozio?
Ho scelto la strada del sacerdozio per donarmi tutto a Dio, che intuii fin dai dieci - undici anni come persona a cui si poteva e si doveva consacrare l’intera esistenza.
2. Le è capitato qualche volta di pentirsi di aver seguito Gesù?
Non mi sono mai pentito di aver seguito Gesù,ma mi sono sempre più rallegrato di lui. Non che mi siano mancate le prove e le difficoltà, ma quanto alla mia decisione fondamentale mi pare oggi la stessa con cui sceglievo settanta anni fa.
3. Riesce a rispettare i 10 comandamenti (n.d.r. in particolare: 6°, 7°, ’8°, 9° e 10°: i peccati più confessati qui)? Se sì, come fa?
Mi pare di sforzarmi di rispettare i 10 comandamenti. Il segreto è fidarsi di Dio e
abbandonarsi a Lui.
4. Le è già capitato di avere una rivelazione/apparizione/sogno (n.d.r. al sogno e alla sua interpretazione la gente qui dà spesso una grande importanza e quasi sempre ne ha paura) durante la preghiera? Crede nelle persone che dicono di averne avute?
Non mi ricordo mi sia mai capitato di avere rivelazioni o simili. Rispetto le persone che dicono di averle avute, ma vorrei poterne avere le prove e non e
5. Da dove viene il suo amore per la comunità cristiana di Djamboutou?
Il mio amore viene dallo Spirito Santo e anche dalla conoscenza personale che ho avuto della comunità, bella e coraggiosa.
6. Perché vorrebbe terminare la sua vita a Gerusalemme?
Volevo vivere e morire a Gerusalemme perché è la città della rivelazione e della redenzione, Ma la mia salute non mi ha permesso di viverci ulteriormente.
7. Cosa dobbiamo fare per diventare come lei?
Non dovete diventare come me, ma molto di più, seguendo ciascuno la sua vocazione e rispondendo ai doni di Dio.
1. Cosa dobbiamo fare per amare e seguire la Parola di Dio?
Bisogna anzitutto conoscere la Parola di Dio e vedere in essa con quale amore Dio ci abbia amato
2. Cosa possiamo fare come giovani per altri giovani che non credono in Gesù? E per quelli che ci criticano quando parliamo della nostra fede (n.d.r.chiese protestanti, sette, battezzati che hanno abbandonato il cammino…)?
Occorre vivere personalmente il Vangelo. Esso è inoppugnabile quando vissuto nella sua intera verità (con il perdono delle offese, l’amore anche dei nemici ec.)
3. Perché tanti giovani africani si lasciano tentare dalle sette?
Mi pare che le sette corrispondano in positivo a un desiderio di maggiore soggettività nella comunità e in negativo a una religione facile e affidata all’entusiasmo.
4. Come possiamo fare per lottare contro le tentazioni, in particolare quella dell’ipocrisia, del facile guadagno e quelle legate alla nostra sessualità (n.d.r. per guadagnare qualcosa spesso capita che si venda anche il proprio corpo e comunque riesce molto difficile trovare un equilibrio e un buon controllo rispetto alla grande energia della sessualità)?
Bisogna avere grande stima della dignità della nostra anima e del nostro corpo e pensare che v’è più gioia nel sacrificio e nella rinuncia che non nell’accondiscendere alle nostre passioni.
1. Perché qui in Africa gli uomini e le donne hanno una speranza di vita più breve di quanto fosse nel passato e rispetto agli uomini e le donne di altre parti del mondo?
Non saprei dire se la speranza di vita è più breve. Per quanto ne so la vita media si è allungata anche in Africa, Però è inferiore a quella europea per causa della fame, delle malattie ecc. Bisogna che i paesi dove c’è benessere si diano da fare per l’Africa, ma che anche gli africani stimino il bene comune superiore al bene del gruppo. Altrimenti la politica sarà sempre fonte di corruzione e di lotte.
2. Perché i giovani africani incontrano sempre tante difficoltà per quanto riguarda lapossibilità e la scelta di un lavoro?
Mi pare che in Africa ci sia meno lavoro anche per le condizioni generali del Continente. Ma chi ha veramente voglia e impegno deve rischiare.
3. Spesso il diavolo è presentato come un essere “nero”: questo vuol dire che il continente africano è votato alla perdizione?
Non c’è alcun rapporto tra il “nero” del diavolo (che è piuttosto rappresentato come rosso fuoco) e il “Continente nero”. Oggi, come si vede nel presidente americano, anche il nero può assurgere alle più alte responsabilità come e più del bianco.