domenica 4 dicembre 2011

Quattro spazi funzionali ad un ideale di città

Come potremmo delineare l'ideale di una città concreta, che cammina da Ur verso Gerusalemme al passo di Abramo?
Non mi riferisco a una città ideale ma a un ideale di città: una città nella quale ci sono spazi per quell'azione dello Spirito che fa da contrasto al lievito e al fermento di Babilonia, di Sodoma, e di Gerico e conduce verso la Gerusalemme che speriamo.
Questi spazi sono di diversi tipi.
Anzitutto sono spazi di silenzio, anche nel centro della città. Emblematico, in questo senso, è il Duomo di Milano, costruito come icona della Gerusalemme celeste, ma con i pilastri piantati nella terra, come invito perenne a elevare in alto il cuore e la mente. Come il Duomo, ci vorrebbero tanti luoghi propizi al silenzio, alla riflessione, all'ascolto.
Dopo il silenzio e l'ascolto occorre il dialogo. Per questo ci vogliono le piazze, le agorá in cui la gente si possa ritrovare per capirsi e scambiarsi i doni intellettuali e morali di cui nessuno è privo.
In terzo luogo ci vogliono le vie percorribili in tutti i sensi, cioè tutte quelle reti di relazioni che si coagulano in amicizie e accoglienze e che, se autentiche e profonde, raggiungono anche persone diverse per cultura, razza e confessione religiosa. Mi colpisce a tale proposito come già il mondo classico fosse sensibile a questo aspetto e definisse la città anzitutto come un luogo di amicizia. (...) Aristotele osa affermare che "quando si è amici, non c'è affatto bisogno della giustizia, mentre, anche essendo giusti, si ha bisogno dell'amicizia, e il punto più alto della giustizia sembra appartenere alla natura dell'amicizia". Ciò mostra che la speranza di restaurare i rapporti in una città solo  sulla base della giustizia, che pure è una delle virtù più alte, è insufficiente, perché c'è un fondamento di concordia umana che sta al di sotto e sostiene tutti gli sforzi successivi per stare insieme e dare a ciascuno il suo.
Quarto luogo o situazione: l'intercessione e l'ospitalità. Unisco le due realtà così come le unisce l'episodio di Abramo che accoglie i tre misteriosi pellegrini davanti alla sua tenda e intercede presso di loro -di fatto presso Dio-, perché Sodoma si salvi (Cfr. Gen 18-19). Ospitalità a Dio e allo straniero sono realtà misteriosamente connesse lungo tutta la Scrittura. Si afferma così un misterioso rapporto tra ospitalità allo straniero e operosità per la pace nel mondo.

Coi mezzi sopra indicati, e con molti altri che si potrebbero ricordare, non intendo dire che avremmo una città ideale, ma che saremmo in cammino verso una città che ancora non c'è e apriremmo gli occhi per vedere, sotto le sembianze di Babele, anche quella Gerusalemme che è già tra noi e di cui già abbiamo avuto esempi concreti e significativi.

venerdì 2 dicembre 2011

La città: il luogo nel quale imparare a vivere e costruire lo Shalóm

Secondo Harwey Cox la storia umana va verso una città.
Egli ricordava infatti che il cammino umano non è descritto nella Bibbia come un cammino verso un "paradiso", nel senso originario di "giardino", "giardino delle delizie", anche se da esso parte l'umanità. La meta del cammino umano non è né un giardino né la campagna, ma la città.
É la città descritta nell'Apocalisse (cap.21-22)

La città ideale, meta del cammino umano ha in sé il meglio del paradiso originario, il fiume dell'acqua e l'albero della vita; tuttavia è una città, un luogo dove gli uomini vivono in un intreccio di relazioni molteplici e costruttive.
É una visione che può sembrare utopica, aerea, astratta. Essa è tuttavia un monito che ci inchioda alla città. Il nostro cammino, il nostro ideale non è quello di un week-end di fuga verso l'aria pulita dei monti e delle campagne, verso la solitudine e il silenzio, ma verso il formicolio delle genti radunate insieme per una grande festa.
L'antitesi della città biblica non è la campagna, ma il deserto che tutto divora e tutto distrugge; dunque, la scelta è: o il deserto o la città.

Volendo tradurre laicamente quanto ho tentato di dire fin qui in termini biblici direi che per superare le maledizioni e fatiche della città e per leggere dentro di essa la presenza di non poche benedizioni come pure di non poche gioie sincere, non occorre necessariemente avere davanti agli occhi una città ideale, ma almeno un ideale di città. Una città fatta di relazioni umane responsabili e reciproche, che ci stanno dinnanzi come un impegno etico. Allora la città diventa un'occasione, anzi una miniera inesauribile di possibilità di intessere relazioni autentiche, sia con lo strumento del gesto costruttivo o propositivo, sia -e forse ancora di più- con lo strumento del gesto dell'accetazione, dell'ospitalità, della riconciliazione e persino del perdono.
(...)
La città non è, dunque, il luogo da cui fuggire a causa delle sue tensioni, dove abitare il meno possibile, ma luogo nel quale imparare a vivere. Tutta la storia della Gerusalemme biblica è una storia del conflitto tra il deserto che la minaccia l'ideale di pace che la muove e la sostiene da tremila anni perché non si stanchi di ricercare lo Shalóm anche in mezzo a tutte le contraddizioni che sembrerebbero mostrare l'impossibilità della pace.


Carlo Maria Martini, Verso Gerusalemme, 2002, Feltrinelli, pp. 21-23

giovedì 1 dicembre 2011

La piccola comunità cristiana nella grande città pagana

Tra le rovine di Efeso si comprende meglio il significato della Lettera di Paolo, mandata a una comunità che viveva in una città ricca, opulenta, stracarica di monumenti straordinari, che viveva in un mondo pagano pieno di crudeltà, superstizione - pensiamo al culto della dea Artemide -, in una città dove il paganesimo si mostrava forte, invincibile, glorioso, strapotente e la piccola comunità cristiana appariva un piccolo gruppo insignificante.
Eppure alla piccola comunità di Efeso Paolo scrive presentando una grande visione del disegno di Dio sul mondo, uno sguardo cosmico sul futuro dell'umanità. La sua lettera prevede uno svolgimento della storia che ha il suo centro in Cristo, e si rivelerà vittoriosamente aldilà di ogni resistenza umana: è il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose.

Efeso, 18 giugno 2002, card. Carlo Maria Martini

mercoledì 30 novembre 2011

La "Gioia Perfetta" non disdegna piegarsi sulle sofferenze proprie e altrui

Mi piacerebbe riassumere tutto il mio ministero più che ventennale a Milano con l'augurio: "La vostra gioia sia perfetta". Un augurio, una parola semplicissima, ma di cui abbiamo paura. Ci sembra che la gioia perfetta non vada bene perché sono sempre tante le cose per cui preoccuparsi, tante le situazioni sbagliate, le guerre, le sofferenza: con tali giuste ragioni noi ci priviamo della gioia perfetta.
Ma gioia perfetta non vuol dire non condividere il dolore per l'ingiustizia, per la fame nel mondo; è una gioia più profonda, dalla quale ci dispensiamo troppo facilmente pensando che non sia per noi, che stoni di fronte al coro di lamentele proprio della nostra società occidentale. Se apriamo i giornali, ci accorgiamo che ogni giorno c'è una polemica, un conflitto, una rissa, un sospetto, un retroscena, e così la nostra gioia si intride di tristezza, si rovina come se fosse marcia.
In realtà la gioia deve essere perfetta e vi auguro di scoprirla come gioia che non disdegna di piegarsi sulle sofferene proprie e altrui, perché ne abbiamo scoperto il segreto, quello di aver toccato il Verbo della vita che risana ogni esperienza  di sofferenza, di malattia, di povertà, di ingiustizia, di morte.

Efeso, 18 giugno 2002, card. Carlo Maria Martini

mercoledì 16 novembre 2011

Il Card. Martini a confronto con san Francesco

Noi ci domandiamo presso il luogo del beato transito di Francesco: che cosa ci impedisce oggi maggiormente di vivere la radicalità della fede? Ci troviamo di fronte, nel nostro mondo occidentale, all'ansia di possedere, alla paura di perdere, all'angoscia di rischiare, che rende tutti garantisti, aggressivi e polemici per la difesa del proprio benessere, sospettosi del bene altrui, solleciti più dell'interesse privato che del bene comune. Se dobbiamo dare un nome alla causa radicale della bramosia dell'avere più che del desiderio di essere, ci viene in aiuto la Bibbia: La paura della morte. La lettera agli Ebrei presenta Gesù come Colui che ha liberato, con la sua morte e risurrezione, coloro che "per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita" (Ebr 2,15). Quando l'orizzonte dell'immortalità e dell'eternità si restringe e si offusca, l'uomo si chiude nel presente, difende con accanimento quel poco che ha: avverte che la morte è come in agguato per rapirgli i suoi beni e li vuole godere il più a lungo e il più intensamente possibile, tentando di esorcizzare e di dimenticare la sua finitudine. Tratto dall'omilia del cardinale C.M.Martini nella festa di san Francesco, Assisi, Basilica Patriarcle di san Francesco, , 4 ottobre 1995

giovedì 13 ottobre 2011

Il Signore verrà e io lo vedo ogni mattina. Sul relativismo cristiano

«Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo». Queste parole mi dicono molto, perché dalla mia finestra di Gerusalemme io vedo il Monte degli Ulivi e intravedo il luogo tradizionale della Ascensione, segnato da un piccolo minareto. E sento come di là mi risuonino dentro queste parole: «Gesù tornerà, tornerà, a quel modo in cui l’avete visto andare in cielo». Allora mi sorge nel cuore la preghiera: vieni, Signore Gesù, ritorna a visitarci. Signore Gesù, noi amiamo, attendiamo la tua manifestazione, desideriamo che venga il tuo regno, che siano saziate la nostra fame e sete di giustizia, che si compia la tua volontà in pienezza. Fa’ che cerchiamo anzitutto, come ci hai insegnato nel Discorso della montagna, il regno di Dio e la sua giustizia. Chiedo la grazia che questo regno venga, e non semplicemente che venga quasi impercettibilmente nella storia, ma che venga nella sua manifestazione totale e definitiva, là dove tutto sarà chiaro, tutto apparirà trasparente. E’ a partire da quel momento culminante in cui la storia sarà giudicata da Dio, che noi siamo invitati a leggere la nostra piccola storia di ogni giorno. Il Signore viene, il Signore verrà, per rendere a ciascuno secondo le sue opere.
Si dice giustamente che nel mondo c’è molto relativismo, che tutte le cose sono prese quasi valessero come tutte le altre, ma c’è pure un “relativismo cristiano”, che è il leggere tutte le cose in relazione al momento nel quale la storia sarà palesemente giudicata. E allora appariranno le opere degli uomini nel loro vero valore, il Signore sarà giudice dei cuori, ciascuno avrà la sua lode da Dio, non saremo più soltanto in ascolto degli applausi e dei fischi, delle approvazioni o delle disapprovazioni, sarà il Signore a darci il criterio ultimo, definitivo delle realtà di questo mondo. Si compirà il giudizio sulla storia, si vedrà chi aveva ragione, tante cose si chiariranno, si illumineranno, si pacificheranno anche per coloro che in questa storia ancora soffrono, ancora sono avvolti nell’oscurità, ancora non capiscono il senso di ciò che sta loro accadendo.
Il Signore verrà e io lo vedo ogni mattina, perché il sole sorge proprio dal Monte degli Ulivi e col sorgere del sole sento la certezza del venire del Signore per giudicare fino in fondo la nostra vita e renderla trasparente, luminosa, oppure per purificarla là dove essa necessita di purificazione.

(Card. Carlo Maria Martini nell'omelia per i suoi XXV anni di episcopato)

mercoledì 12 ottobre 2011

L'anziano Martini ci aiuta a considerare le età della vita alla luce della tenerezza di Dio

Citando un proverbio indiano mons. Carlo Maria Martini definisce l'ultima fase della sua esistenza, quella del «tempo in cui s'impara la mendicità».
Su tale proverbio, il cardinale ha organizzato il testo di questo libro, in cui viene affrontato il tema della «sapienza della vita» nelle sue quattro fasi: la fanciullezza, la giovinezza, l'età adulta e l'anzianità.
 La condizione umana, sempre provvisoria pur nella sua apparente continuità, muta con il mutare del corpo e dell'animo sotto la spinta dell'esperienza e dei fatti di tutti i giorni. Martini ha più volte analizzato, nei suoi incontri con i giovani, i lavoratori, gli anziani, i rischi e la grandezza di ogni età, ciascuna degna di essere vissuta con il massimo impegno e consapevolezza.
Le parole del cardinale, una delle voci più ascoltate da cattolici e laici, sono frutto quindi di una lunga, personale meditazione, e hanno come intento non soltanto di aiutare l'uomo contemporaneo a superare con serenità e consapevolezza le innumerevoli prove che deve affrontare quotidianamente, ma di metterlo anche in condizione di passare da un'età all'altra senza soccombere sotto il peso delle inevitabili e crescenti difficoltà e responsabilità, che sono invece la vera fonte della nostra crescita. Maturazione, responsabilità, libertà, coraggio, sofferenza sono i termini più utilizzati in queste riflessioni per accompagnare ciascun uomo nella bella e tempestosa traversata della vita.
Una guida rivolta a tutti noi, credenti e non, all'alba o al tramonto della nostra umana avventura, ispirata da comprensione e amore, perché «la grande tenerezza con cui Dio ci è vicino mette in fuga la timidità e la paura, producendo pace, serenità, gioia. Si sente che qualcuno è presente ed è molto più grande di noi; che le piccole cose che stiamo vivendo ci portano in realtà molto al di là della nostra esperienza, verso il gusto di una presenza santa, tenera, affettuosa, capace di non abbandonarci mai».

Il libro è edito da Mondadori e lo trovi anche su iTunes a 9,99 euro, purtroppo... non dovrebbero gli ebook costare un po' di meno?

domenica 15 maggio 2011

Messa Crismale del 2000 in Duomo di Milano presieduta dal Card. Martini

Ricordiamo con questo video l'incoraggiamento rivolto dal Card. Martini ai suoi sacerdoti in occasione del giovedí santo del 2000:
"Vivere nella fede e nella speranza del Signore che dará a ciascuno la grazia di stato per vivere il suo servizio come prolungamento di Cristo".



"Tutto andrebbe meglio se in ogni professione ciascuno mettesse la stessa carica ideale, generosità e perseveranza che caratterizza i sacerdoti ambrosiani"

lunedì 25 aprile 2011

Il senso della Pasqua per chi non crede

Mentre il Natale suscita istintivamente l’immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata a rappresentazioni più complesse. È la vicenda di una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, di un’esistenza ridonata a chi l’aveva perduta. Perciò, se il Natale suscita un po’ in tutte le latitudini (anche presso i non cristiani e i non credenti) un’atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile. Ma tutta la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno dell’oscuro e del difficile. Penso soprattutto, in questo momento, ai malati, a coloro che soffrono sotto il peso di diagnosi infauste, a coloro che non sanno a chi comunicare la loro angoscia, e anche a tutti quelli per cui vale il detto antico, icastico e quasi intraducibile, senectus ipsa morbus, «la vecchiaia è per sua natura una malattia». Penso insomma a tutti coloro che sentono nella carne, nella psiche o nello spirito lo stigma della debolezza e della fragilità umana: essi sono probabilmente la maggioranza degli uomini e delle donne di questo mondo.

Per questo vorrei che la Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello «star bene» come principio assoluto. Vorrei che il saluto e il grido che i nostri fratelli dell’Oriente si scambiano in questi giorni, «Cristo è risorto, Cristo è veramente risorto», percorresse le corsie degli ospedali, entrasse nelle camere dei malati, nelle celle delle prigioni; vorrei che suscitasse un sorriso di speranza anche in coloro che si trovano nelle sale di attesa per le complicate analisi richieste dalla medicina di oggi, dove spesso si incontrano volti tesi, persone che cercano di nascondere il nervosismo che le agita.

La domanda che mi faccio è: che cosa dice oggi a me, anziano, un po’ debilitato nelle forze, ormai in lista di chiamata per un passaggio inevitabile, la Pasqua? E che cosa potrebbe dire anche a chi non condivide la mia fede e la mia speranza? Anzitutto la Pasqua mi dice che «le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rom 8,18). Queste sofferenze sono in primo luogo quelle del Cristo nella sua Passione, per le quali sarebbe difficile trovare una causa o una ragione se non si guardasse oltre il muro della morte. Ma ci sono anche tutte le sofferenze personali o collettive che gravano sull’umanità, causate o dalla cecità della natura o dalla cattiveria o negligenza degli uomini.

Bisogna ripetersi con audacia, vincendo la resistenza interiore, che non c’è proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con fiducia. In occasione della Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne».

Tutto questo richiede una grande tensione di speranza. Perché, come dice ancora san Paolo, «nella speranza noi siamo salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza» (Rom 8,24). Sperare così può essere difficile, ma non vedo altra via di uscita dai mali di questo mondo, a meno che non si voglia nascondere il volto nella sabbia e non voler vedere o pensare nulla. Più difficile è però per me esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. In questo mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa, che le aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (Lettera ai Romani, 4,18), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto.
È così che molti uomini hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 o dopo l’inondazione di New Orleans provocata dall’uragano Katrina nell’agosto successivo. Si pensi alle energie di ricostruzione che sorgono come dal nulla dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole che la ventottenne Etty Hillesum scrisse il 3 luglio 1942, prima di essere portata a morire ad Auschwitz: «Io guardavo in faccia la nostra distruzione imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava già in molti momenti ordinari della nostra vita quotidiana. È questa possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità. La possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione». Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento tecnico: al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni. L’interrogativo è invece sul senso di quanto sta avvenendo e più ancora sull’amore che è dato di cogliere anche in simili frangenti. C’è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita persino nella debolezza, che mi dice «io sono la vita, la vita per sempre».

O almeno c’è qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando mi sembra che tutto sia perduto. È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro la possibilità di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale.
La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.


Articolo di Carlo Maria Martini tratto da

martedì 12 aprile 2011

Rai Tre Correva l'anno - 21 marzo 2011

La programmazione di CORREVA L’ANNO dedicata al 150° anniversario dell’Unità d’Italia ha realizzato una puntata sulla figura del Cardinal Carlo Maria Martini presentandolo cosí: un fine biblista, un teologo, che ha saputo vivere la sua fede e il suo impegno nella realtà quotidiana, al passo con i tempi, vicino alla gente comune. Vicino anche a chi non crede, o a quanti abbiano una fede diversa.

Rai Tre Correva l'anno - 21 marzo 2011

domenica 13 febbraio 2011

Il colloquio penitenziale: confessio laudis, confessio vitae, confessio fidei

Il disagio di fronte al contenuto dell'accusa dei peccati è molto diffuso nella chiesa di oggi. Un disagio che, a mio parere, nasce proprio dalla forma, dall'atmosfera che assume la Confessione. Ovviamente, per quanti intendono il sacramento della penitenza nel modo antico, come una confessione breve, frequente, nella quale si costruisce una serie di piccole pietre miliari che aiutano a essere puruficati dalle colpe quotidiane e a mantenere vivo il senso della gratuità della salvezza, esso ha tuttora un significato precison anzi è una grazia; li invito perciò a continuare così.
Il mio suggerimento vale dunque per coloro che trovano difficile la pratica della confessione regolare, ritenendola faticosa, formale, poco stimolante, addirittura inutule.

A questi propongo il colloquio penitenziale, cioè un dialogo fatto con il sacerdote, nel quale cerco di vivere il momento della riconciliazione in una maniera più ampia rispetto alla confessione breveche elenca semplicemente le mancanze; tale allargamento è previsto, fra l'altro, dal nuovo Ordo Poenitentiae.
Si inizia il colloquio con la lettura di una pagina biblica, con un Salmo, cosí da porsi in un'atmosfera di verità davanti al Signore. Segue quindi un triplice momento: confessio laudis, confessio vitae, confessio fidei.

La confessio laudis risponde alla domanda: dall'ultima confessione, quali sono le cose per cui sento di dover maggiormente ringraziare Dio che mi è stato vicino? Iniziare con il ringraziamento e la lode mette la nostra vita nel giusto quadro ed è molto importante far emergere i doni che il Signore ci ha fatto.

La confessio vitae può partire dalla domanda: dall'ultima confessione, che cosa c'è in me che non vorrei che ci fosse? Che cosa mi pesa? Questo è il momento della confessione dei peccati o delle mancanze precise -la si fa in base allo schema dei dieci comandamenti o delle virtù teologali e cardinali, ecc.-; tuttavia è fondamentale mettere davanti a Dio le situazioni che abbiamo vissuto e che ci pesano (un'antipatia da cui non riusciamo a liberarci e non sappiamo se da parte nostra c'è stata o meno una colpa; una certa fatica nell'amare, nel perdonare, nel servire gli altri).

La confessio fidei, infine, è la preparazione immediata a ricevere il perdono di Dio. È la proclamazione davanti a Lui: "Credo nella tua potenza sulla mia vita".

È necessario cercare di vivere l'esperienza della salvezza come esperienza di fiducia, di gioia, come il momento in cui il Signore entra nella mia esistenza e mi dà la buona notizia.

Carlo Maria Martini, La via di Timoteo.

domenica 6 febbraio 2011

Chi è Timoteo? Profilo di un giovane responsabile di comunità

Timoteo è discepolo fedele e collaboratore dell'Apostolo Paolo; viene scelto per numerose missioni presso le chiese; è coautore di alcune lettere di Paolo e destinatario di due di esse; è formatore di cristiani a partire dalla formazione e dall'esempio di vita del suo maestro: discepoli che, a loro volta, ne educheranno altri.
Timoteo, a differenza di Barnaba e di Marco, non ha mai avuto contrasti con l'Apostolo perché, da quell'uomo devoto che era, si piegava volentieri al carattere non facile del maestro. È importante la virtù di saper collaborare con persone difficili. Si ha anzi l'impressione che Timoteo corregga in qualche modo la durezza di Paolo, che metta pace e infonda calma pur portando il peso di una responsabilità in seconda posizione.
Tuttavia anch'egli ha il suo lato debole: è fragile, avverte la solitudine quando rimane solo, si sente frustrato e indeciso, ed è bello, a mio avviso, specchiarsi nei suoi doni e nei suoi momenti di difficoltà, di prova.

C. M. Martini, La via di Timoteo, p. 12-13