domenica 4 dicembre 2011
Quattro spazi funzionali ad un ideale di città
Non mi riferisco a una città ideale ma a un ideale di città: una città nella quale ci sono spazi per quell'azione dello Spirito che fa da contrasto al lievito e al fermento di Babilonia, di Sodoma, e di Gerico e conduce verso la Gerusalemme che speriamo.
Questi spazi sono di diversi tipi.
Anzitutto sono spazi di silenzio, anche nel centro della città. Emblematico, in questo senso, è il Duomo di Milano, costruito come icona della Gerusalemme celeste, ma con i pilastri piantati nella terra, come invito perenne a elevare in alto il cuore e la mente. Come il Duomo, ci vorrebbero tanti luoghi propizi al silenzio, alla riflessione, all'ascolto.
Dopo il silenzio e l'ascolto occorre il dialogo. Per questo ci vogliono le piazze, le agorá in cui la gente si possa ritrovare per capirsi e scambiarsi i doni intellettuali e morali di cui nessuno è privo.
In terzo luogo ci vogliono le vie percorribili in tutti i sensi, cioè tutte quelle reti di relazioni che si coagulano in amicizie e accoglienze e che, se autentiche e profonde, raggiungono anche persone diverse per cultura, razza e confessione religiosa. Mi colpisce a tale proposito come già il mondo classico fosse sensibile a questo aspetto e definisse la città anzitutto come un luogo di amicizia. (...) Aristotele osa affermare che "quando si è amici, non c'è affatto bisogno della giustizia, mentre, anche essendo giusti, si ha bisogno dell'amicizia, e il punto più alto della giustizia sembra appartenere alla natura dell'amicizia". Ciò mostra che la speranza di restaurare i rapporti in una città solo sulla base della giustizia, che pure è una delle virtù più alte, è insufficiente, perché c'è un fondamento di concordia umana che sta al di sotto e sostiene tutti gli sforzi successivi per stare insieme e dare a ciascuno il suo.
Quarto luogo o situazione: l'intercessione e l'ospitalità. Unisco le due realtà così come le unisce l'episodio di Abramo che accoglie i tre misteriosi pellegrini davanti alla sua tenda e intercede presso di loro -di fatto presso Dio-, perché Sodoma si salvi (Cfr. Gen 18-19). Ospitalità a Dio e allo straniero sono realtà misteriosamente connesse lungo tutta la Scrittura. Si afferma così un misterioso rapporto tra ospitalità allo straniero e operosità per la pace nel mondo.
Coi mezzi sopra indicati, e con molti altri che si potrebbero ricordare, non intendo dire che avremmo una città ideale, ma che saremmo in cammino verso una città che ancora non c'è e apriremmo gli occhi per vedere, sotto le sembianze di Babele, anche quella Gerusalemme che è già tra noi e di cui già abbiamo avuto esempi concreti e significativi.
venerdì 2 dicembre 2011
La città: il luogo nel quale imparare a vivere e costruire lo Shalóm
Egli ricordava infatti che il cammino umano non è descritto nella Bibbia come un cammino verso un "paradiso", nel senso originario di "giardino", "giardino delle delizie", anche se da esso parte l'umanità. La meta del cammino umano non è né un giardino né la campagna, ma la città.
É la città descritta nell'Apocalisse (cap.21-22)
La città ideale, meta del cammino umano ha in sé il meglio del paradiso originario, il fiume dell'acqua e l'albero della vita; tuttavia è una città, un luogo dove gli uomini vivono in un intreccio di relazioni molteplici e costruttive.
É una visione che può sembrare utopica, aerea, astratta. Essa è tuttavia un monito che ci inchioda alla città. Il nostro cammino, il nostro ideale non è quello di un week-end di fuga verso l'aria pulita dei monti e delle campagne, verso la solitudine e il silenzio, ma verso il formicolio delle genti radunate insieme per una grande festa.
L'antitesi della città biblica non è la campagna, ma il deserto che tutto divora e tutto distrugge; dunque, la scelta è: o il deserto o la città.
Volendo tradurre laicamente quanto ho tentato di dire fin qui in termini biblici direi che per superare le maledizioni e fatiche della città e per leggere dentro di essa la presenza di non poche benedizioni come pure di non poche gioie sincere, non occorre necessariemente avere davanti agli occhi una città ideale, ma almeno un ideale di città. Una città fatta di relazioni umane responsabili e reciproche, che ci stanno dinnanzi come un impegno etico. Allora la città diventa un'occasione, anzi una miniera inesauribile di possibilità di intessere relazioni autentiche, sia con lo strumento del gesto costruttivo o propositivo, sia -e forse ancora di più- con lo strumento del gesto dell'accetazione, dell'ospitalità, della riconciliazione e persino del perdono.
(...)
La città non è, dunque, il luogo da cui fuggire a causa delle sue tensioni, dove abitare il meno possibile, ma luogo nel quale imparare a vivere. Tutta la storia della Gerusalemme biblica è una storia del conflitto tra il deserto che la minaccia l'ideale di pace che la muove e la sostiene da tremila anni perché non si stanchi di ricercare lo Shalóm anche in mezzo a tutte le contraddizioni che sembrerebbero mostrare l'impossibilità della pace.
Carlo Maria Martini, Verso Gerusalemme, 2002, Feltrinelli, pp. 21-23
giovedì 1 dicembre 2011
La piccola comunità cristiana nella grande città pagana
Eppure alla piccola comunità di Efeso Paolo scrive presentando una grande visione del disegno di Dio sul mondo, uno sguardo cosmico sul futuro dell'umanità. La sua lettera prevede uno svolgimento della storia che ha il suo centro in Cristo, e si rivelerà vittoriosamente aldilà di ogni resistenza umana: è il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose.
Efeso, 18 giugno 2002, card. Carlo Maria Martini
mercoledì 30 novembre 2011
La "Gioia Perfetta" non disdegna piegarsi sulle sofferenze proprie e altrui
Ma gioia perfetta non vuol dire non condividere il dolore per l'ingiustizia, per la fame nel mondo; è una gioia più profonda, dalla quale ci dispensiamo troppo facilmente pensando che non sia per noi, che stoni di fronte al coro di lamentele proprio della nostra società occidentale. Se apriamo i giornali, ci accorgiamo che ogni giorno c'è una polemica, un conflitto, una rissa, un sospetto, un retroscena, e così la nostra gioia si intride di tristezza, si rovina come se fosse marcia.
In realtà la gioia deve essere perfetta e vi auguro di scoprirla come gioia che non disdegna di piegarsi sulle sofferene proprie e altrui, perché ne abbiamo scoperto il segreto, quello di aver toccato il Verbo della vita che risana ogni esperienza di sofferenza, di malattia, di povertà, di ingiustizia, di morte.
Efeso, 18 giugno 2002, card. Carlo Maria Martini
mercoledì 16 novembre 2011
Il Card. Martini a confronto con san Francesco
giovedì 13 ottobre 2011
Il Signore verrà e io lo vedo ogni mattina. Sul relativismo cristiano
Si dice giustamente che nel mondo c’è molto relativismo, che tutte le cose sono prese quasi valessero come tutte le altre, ma c’è pure un “relativismo cristiano”, che è il leggere tutte le cose in relazione al momento nel quale la storia sarà palesemente giudicata. E allora appariranno le opere degli uomini nel loro vero valore, il Signore sarà giudice dei cuori, ciascuno avrà la sua lode da Dio, non saremo più soltanto in ascolto degli applausi e dei fischi, delle approvazioni o delle disapprovazioni, sarà il Signore a darci il criterio ultimo, definitivo delle realtà di questo mondo. Si compirà il giudizio sulla storia, si vedrà chi aveva ragione, tante cose si chiariranno, si illumineranno, si pacificheranno anche per coloro che in questa storia ancora soffrono, ancora sono avvolti nell’oscurità, ancora non capiscono il senso di ciò che sta loro accadendo.
Il Signore verrà e io lo vedo ogni mattina, perché il sole sorge proprio dal Monte degli Ulivi e col sorgere del sole sento la certezza del venire del Signore per giudicare fino in fondo la nostra vita e renderla trasparente, luminosa, oppure per purificarla là dove essa necessita di purificazione.
(Card. Carlo Maria Martini nell'omelia per i suoi XXV anni di episcopato)
mercoledì 12 ottobre 2011
L'anziano Martini ci aiuta a considerare le età della vita alla luce della tenerezza di Dio
Su tale proverbio, il cardinale ha organizzato il testo di questo libro, in cui viene affrontato il tema della «sapienza della vita» nelle sue quattro fasi: la fanciullezza, la giovinezza, l'età adulta e l'anzianità.
La condizione umana, sempre provvisoria pur nella sua apparente continuità, muta con il mutare del corpo e dell'animo sotto la spinta dell'esperienza e dei fatti di tutti i giorni. Martini ha più volte analizzato, nei suoi incontri con i giovani, i lavoratori, gli anziani, i rischi e la grandezza di ogni età, ciascuna degna di essere vissuta con il massimo impegno e consapevolezza.
Le parole del cardinale, una delle voci più ascoltate da cattolici e laici, sono frutto quindi di una lunga, personale meditazione, e hanno come intento non soltanto di aiutare l'uomo contemporaneo a superare con serenità e consapevolezza le innumerevoli prove che deve affrontare quotidianamente, ma di metterlo anche in condizione di passare da un'età all'altra senza soccombere sotto il peso delle inevitabili e crescenti difficoltà e responsabilità, che sono invece la vera fonte della nostra crescita. Maturazione, responsabilità, libertà, coraggio, sofferenza sono i termini più utilizzati in queste riflessioni per accompagnare ciascun uomo nella bella e tempestosa traversata della vita.
Una guida rivolta a tutti noi, credenti e non, all'alba o al tramonto della nostra umana avventura, ispirata da comprensione e amore, perché «la grande tenerezza con cui Dio ci è vicino mette in fuga la timidità e la paura, producendo pace, serenità, gioia. Si sente che qualcuno è presente ed è molto più grande di noi; che le piccole cose che stiamo vivendo ci portano in realtà molto al di là della nostra esperienza, verso il gusto di una presenza santa, tenera, affettuosa, capace di non abbandonarci mai».
Il libro è edito da Mondadori e lo trovi anche su iTunes a 9,99 euro, purtroppo... non dovrebbero gli ebook costare un po' di meno?
domenica 15 maggio 2011
Messa Crismale del 2000 in Duomo di Milano presieduta dal Card. Martini
"Vivere nella fede e nella speranza del Signore che dará a ciascuno la grazia di stato per vivere il suo servizio come prolungamento di Cristo".
"Tutto andrebbe meglio se in ogni professione ciascuno mettesse la stessa carica ideale, generosità e perseveranza che caratterizza i sacerdoti ambrosiani"
lunedì 25 aprile 2011
Il senso della Pasqua per chi non crede
Per questo vorrei che la Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello «star bene» come principio assoluto. Vorrei che il saluto e il grido che i nostri fratelli dell’Oriente si scambiano in questi giorni, «Cristo è risorto, Cristo è veramente risorto», percorresse le corsie degli ospedali, entrasse nelle camere dei malati, nelle celle delle prigioni; vorrei che suscitasse un sorriso di speranza anche in coloro che si trovano nelle sale di attesa per le complicate analisi richieste dalla medicina di oggi, dove spesso si incontrano volti tesi, persone che cercano di nascondere il nervosismo che le agita.
La domanda che mi faccio è: che cosa dice oggi a me, anziano, un po’ debilitato nelle forze, ormai in lista di chiamata per un passaggio inevitabile, la Pasqua? E che cosa potrebbe dire anche a chi non condivide la mia fede e la mia speranza? Anzitutto la Pasqua mi dice che «le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rom 8,18). Queste sofferenze sono in primo luogo quelle del Cristo nella sua Passione, per le quali sarebbe difficile trovare una causa o una ragione se non si guardasse oltre il muro della morte. Ma ci sono anche tutte le sofferenze personali o collettive che gravano sull’umanità, causate o dalla cecità della natura o dalla cattiveria o negligenza degli uomini.
Bisogna ripetersi con audacia, vincendo la resistenza interiore, che non c’è proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con fiducia. In occasione della Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne».
Tutto questo richiede una grande tensione di speranza. Perché, come dice ancora san Paolo, «nella speranza noi siamo salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza» (Rom 8,24). Sperare così può essere difficile, ma non vedo altra via di uscita dai mali di questo mondo, a meno che non si voglia nascondere il volto nella sabbia e non voler vedere o pensare nulla. Più difficile è però per me esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. In questo mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa, che le aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (Lettera ai Romani, 4,18), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto.
È così che molti uomini hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 o dopo l’inondazione di New Orleans provocata dall’uragano Katrina nell’agosto successivo. Si pensi alle energie di ricostruzione che sorgono come dal nulla dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole che la ventottenne Etty Hillesum scrisse il 3 luglio 1942, prima di essere portata a morire ad Auschwitz: «Io guardavo in faccia la nostra distruzione imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava già in molti momenti ordinari della nostra vita quotidiana. È questa possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità. La possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione». Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento tecnico: al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni. L’interrogativo è invece sul senso di quanto sta avvenendo e più ancora sull’amore che è dato di cogliere anche in simili frangenti. C’è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita persino nella debolezza, che mi dice «io sono la vita, la vita per sempre».
O almeno c’è qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando mi sembra che tutto sia perduto. È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro la possibilità di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale.
La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.
martedì 12 aprile 2011
Rai Tre Correva l'anno - 21 marzo 2011
Rai Tre Correva l'anno - 21 marzo 2011
domenica 13 febbraio 2011
Il colloquio penitenziale: confessio laudis, confessio vitae, confessio fidei
Il mio suggerimento vale dunque per coloro che trovano difficile la pratica della confessione regolare, ritenendola faticosa, formale, poco stimolante, addirittura inutule.
A questi propongo il colloquio penitenziale, cioè un dialogo fatto con il sacerdote, nel quale cerco di vivere il momento della riconciliazione in una maniera più ampia rispetto alla confessione breveche elenca semplicemente le mancanze; tale allargamento è previsto, fra l'altro, dal nuovo Ordo Poenitentiae.
Si inizia il colloquio con la lettura di una pagina biblica, con un Salmo, cosí da porsi in un'atmosfera di verità davanti al Signore. Segue quindi un triplice momento: confessio laudis, confessio vitae, confessio fidei.
La confessio laudis risponde alla domanda: dall'ultima confessione, quali sono le cose per cui sento di dover maggiormente ringraziare Dio che mi è stato vicino? Iniziare con il ringraziamento e la lode mette la nostra vita nel giusto quadro ed è molto importante far emergere i doni che il Signore ci ha fatto.
La confessio vitae può partire dalla domanda: dall'ultima confessione, che cosa c'è in me che non vorrei che ci fosse? Che cosa mi pesa? Questo è il momento della confessione dei peccati o delle mancanze precise -la si fa in base allo schema dei dieci comandamenti o delle virtù teologali e cardinali, ecc.-; tuttavia è fondamentale mettere davanti a Dio le situazioni che abbiamo vissuto e che ci pesano (un'antipatia da cui non riusciamo a liberarci e non sappiamo se da parte nostra c'è stata o meno una colpa; una certa fatica nell'amare, nel perdonare, nel servire gli altri).
La confessio fidei, infine, è la preparazione immediata a ricevere il perdono di Dio. È la proclamazione davanti a Lui: "Credo nella tua potenza sulla mia vita".
È necessario cercare di vivere l'esperienza della salvezza come esperienza di fiducia, di gioia, come il momento in cui il Signore entra nella mia esistenza e mi dà la buona notizia.
Carlo Maria Martini, La via di Timoteo.
domenica 6 febbraio 2011
Chi è Timoteo? Profilo di un giovane responsabile di comunità
Timoteo, a differenza di Barnaba e di Marco, non ha mai avuto contrasti con l'Apostolo perché, da quell'uomo devoto che era, si piegava volentieri al carattere non facile del maestro. È importante la virtù di saper collaborare con persone difficili. Si ha anzi l'impressione che Timoteo corregga in qualche modo la durezza di Paolo, che metta pace e infonda calma pur portando il peso di una responsabilità in seconda posizione.
Tuttavia anch'egli ha il suo lato debole: è fragile, avverte la solitudine quando rimane solo, si sente frustrato e indeciso, ed è bello, a mio avviso, specchiarsi nei suoi doni e nei suoi momenti di difficoltà, di prova.
C. M. Martini, La via di Timoteo, p. 12-13