lunedì 31 ottobre 2016

I santi sono uomini felici!

Ciò che stupisce nel brano di Matteo (Mt 5, 3-11) è che la proclamazione della felicità non riguarda, in parecchi casi di queste beatitudini, opzioni fondamentali (come potrebbero essere «non uccidere», «non rubare», «onora il padre e la madre»); riguarda piuttosto situazioni ed atteggiamenti che comunemente non sono considerati di felicità e di benessere.
 Anzi, le beatitudini che ci colpiscono di più non sono quelle che, in certo senso, sono ovvie: beati gli operatori di pace, beati i puri di cuore, ma sono invece quelle che si esprimono con un bruciante contrasto: beati i poveri, beati gli afflitti, beati gli affamati.
 Dietro alle beatitudini, perciò, si nasconde un misterioso capovolgimento antropologico che consiste nel passare dall’avere all’essere, anzi dall’essere al dare, dall’avere per sé all’essere per gli altri. Cogliendo la dinamica di questo guado fondamentale per l’uomo, noi raggiungiamo il segreto di Dio che è insieme il vero segreto dell’uomo: donarsi, essere per un altro.
 I Santi sono uomini felici, sono uomini che hanno trovato il loro vero centro, uomini che hanno operato la conversione dall’avere all’essere e dall’essere al dare: per questo sono stati e sono felici. Celebrando la loro festa siamo invitati a partecipare, nella fede, alla loro esperienza di letizia e di gioia.
Un autore contemporaneo dice che la prima qualità che si segnala nella vita dei santi è una forma di grande e ilare felicità, di sereno e totale abbandono, di serena e totale fiducia nel disegno che la vita, scendendo dalle mani di Dio, compone sui sentieri e sulle strade dell’uomo.
La santità, quest’unica forma possibile al mondo di vincere la tristezza, ci viene presentata non come sogno irraggiungibile ma come la méta realistica a cui ogni uomo è chiamato per mezzo del Battesimo. La santità è la nostra chiamata, è una chiamata che riguarda ciascuno di noi, come ha affermato il Concilio Vaticano II: «uno è il popolo eletto di Dio, comune è la dignità dei membri, comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione», cioè la chiamata di tutti noi alla santità.

Cardinale Carlo Maria martini

lunedì 2 novembre 2015

Il ricordo dei nostri cari defunti- Cit. Carlo Maria Martini

In faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo».
 Con queste parole gravi il Concilio Vaticano II descrive l’ansietà e la povertà dell’uomo di fronte al mistero della morte. E noi siamo chiamati ad avvicinarci a questo mistero, e ad avvicinarci ad esso non come ad una realtà astratta, ma come a qualcosa che ha creato strappi dolorosi nella nostra carne, nella vita di ciascuno di noi. Ricordiamo infatti i nostri defunti, i nostri cari che ci hanno lasciato. Per ciascuno di noi sono nomi, persone, volti, parole care che ritornano alla mente, che riempiono la memoria dei giorni passati insieme, dei luoghi animati da presenze care e amate.
Anche i grandi Santi hanno vissuto lo strazio di queste separazioni. Agostino ha descritto con parole ancora vive la sofferenza da lui provata alla morte della madre. Ci dice: «Mentre le chiudevo gli occhi, una tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime. Ma cos’era dunque – si domanda – che mi doleva dentro gravemente se non la recente ferita derivata dalla lacerazione improvvisa della nostra così dolce e cara consuetudine di vita comune?».
Se dunque per i Santi le separazioni dolorose possono essere così penetranti, tali da spezzare il cuore, che cosa non sarà per ciascuno di noi e come non provare pena nel rivivere questi momenti di dolore e di separazione?
Ma i grandi Santi ci mostrano anche la via aperta all’uomo nel mistero della morte. È la via della Pasqua di Cristo che con la sua morte ha distrutto la nostra morte,con la sua risurrezione ha fatto a noi dono della vita.
E noi ricordiamo i nostri defunti non soltanto nella mestizia della separazione, ma li ricordiamo rivivendo il passaggio di Cristo nella morte, e attraverso la morte, alla vita, perché in questo stesso Cristo i nostri defunti vivono e vivranno. I nostri morti sono con noi e vivono con noi e li possiamo sentire uniti alla nostra preghiera. Essi ci parlano nella parola di Gesù, essi sono presenti con noi nella consolazione che il Signore ci dà.

Da "Sulle strade del Signore"  Carlo Maria Martini, meditazioni per tutti i giorni 2 novembre

mercoledì 25 marzo 2015

Preghiera del Cardinal Martini alla "Vergine dell'Annunciazione"

Vergine dell'Annunciazione,
rendici, ti preghiamo, beati nella speranza,
insegnaci la vigilanza del cuore,
donaci l'amore premuroso della sposa,
la perseveranza dell'attesa,
la fortezza della croce.
Dilata il nostro spirito
perché nella trepidazione
dell'incontro definitivo
troviamo il coraggio di rinunciare
ai nostri piccoli orizzonti
per anticipare, in noi e negli altri,
la tenera e intima familiarità di Dio.
Ottienici, Madre, la gioia di gridare
con tutta la nostra vita:
"Vieni, Signore Gesù, vieni, Signore
che sei risorto,
vieni nel tuo giorno senza tramonto
per mostrarci finalmente e per sempre il tuo volto".

Carlo Maria Martini

giovedì 20 novembre 2014

Per entrare in preghiera contemplativa di fronte alle beatitudini, il regno e la giustizia

Le Beatitudini
Incominciamo a riflettere sull’insieme del brano delle Beatitudini, conosciuto anche dai non cristiani; sappiamo, ad esempio, che Gandhi lo citava spesso, e così pure altri personaggi del mondo non cristiano.
Quante solo le Beatitudini secondo Matteo?
Talora si risponde che sono otto, ma se le contiamo attentamente ci accorgiamo che in realtà sono nove:

Introduzione agli esercizi spirituali sulle beatitudini

“Vieni, o santo Spirito, riempi i nostri cuori, nessuna parola sia al di fuori del clima di preghiera nel quale vogliamo vivere questi incontri. Fa che nell’interiorità e nel silenzio, ci possiamo ritirare là dove il mistero di Dio raggiunge il cuore dell’uomo e cambia veramente il mondo. Maria, madre di Gesù, intercedi perché la nostra preghiera sia intensa, autentica, tale da penetrare e purificare la nostra vita”.

Desideriamo compiere insieme l’esercizio della lectio divina sulla pagina del vangelo di Matteo che inizia il grande discorso della montagna Mt 5,1ss. Il tema è dunque quello delle Beatitudini, e vorrei ricordare che facendo la lettura pregata della parola di Dio siamo convinti di obbedire al Vaticano II che, nella Costituzione dogmatica Dei Verbum afferma: Il Santo Sinodo esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli … ad apprendere la sublime scienza di Gesù Cristo, con la frequente lettura delle divine Scritture (DV 25).
Lo scopo che ci proponiamo, perciò, è di apprendere la sublime scienza di Gesù, di riconoscere il cuore di Cristo, il mistero della sua vita nella storia, nella Chiesa, in noi. E chiediamo alla Madonna, che ha contemplato da vicino tale mistero, soprattutto quella della povertà, dell’umiltà, della misericordia di Gesù, di aiutarci a entrare nel significato profondo delle parole evangeliche.

Carlo Maria Martini

giovedì 23 ottobre 2014

Ecco cosa chiamo amore!

«Chiamo amore quella esperienza intensa, indimenticabile e inconfondibile che si può fare soltanto nell'incontro con un'altra persona. Non c'è quindi amore come cosa astratta, come virtù senza oggetto. Non c'è amore solitario. L'amore suppone sempre un altro e si attua in un incontro concreto. Per questo l'amore ha bisogno di appuntamenti, di scambi, di gesti, di parole, di doni che, se sono parziali, sono tuttavia simbolo del dono pieno di una persona all'altra.
Amore è dunque incontrare un'altra persona scambiandosi dei doni, è esperienza in cui si dà qualcosa di sé e c'è più amore quanto più si dà qualcosa di sé. L'amore è un incontro in cui l'altro ci appare importante, in un certo senso più importante di me: cosi importante che, al limite, io vorrei che lui fosse anche con perdita di me.
Uno scopre di essere innamorato quando si accorge che l'altro gli è divenuto, in qualche modo, più importante di se stesso. Per questo l'amore realizza qualcosa che potremmo quasi chiamare un'estasi, un uscire da sé, dal proprio peccato, dal proprio tornaconto, dalla cura affannosa per la propria vita: una sorta di estasi in cui io mi sento tanto più vero e tanto più autentico, tanto più genuinamente "io" quanto più mi dono, mi spendo e non mi appartengo più in esclusiva.
Non c'è quindi nell'amore una perdita dell'io ma un farsi autentico dell'io nell'uscire da sé verso il tu. Risuona qui la parola evangelica: "Chi perde la sua vita, la troverà"».
Carlo Maria Martini, Aprite le porte a Cristo amore, 4-5

sabato 27 settembre 2014

Sulla morte. Pensieri di Carlo Maria Martini.

«Vi sono molti modi di rifiutare il Padre e il cammino verso di lui. Il più comune (e il più nascosto nell'inconscio) è di rifiutare la morte».

Le meditazioni del cardinale Carlo Maria Martini sul passo dell'uomo al di là del muro d'ombra, che separa questa da un'altra vita, sono molte. Frammenti dei suoi scritti scorrono in rete per rinverdire il tema più reietto della nostra civiltà, e addolciscono il volto dello spettro più temuto dalla creatura, rendendolo luminoso, questo volto che si mostra come un teschio da combattere in una lotta alla fine impari. Apparentemente.
«Vivere è convivere con l'idea che tutto prima o poi finirà. La morte è come una sentinella che fa da guardia al mistero. E' la roccia che ci impedisce d'affondare nella superficialità. E' un segnale che ci costringe a cercare una meta per cui valga la pena vivere». 
Le citazioni sono tratte dalla lettera pastorale «Ritornare al Padre» del 1998/1999, che prende avvio dalla parabola del vangelo di Luca, il figliol prodigo. La vita è un cammino nel solco della malinconia di un ritorno ad un corpo amorevole, quello da cui siamo stati concepiti, è la prova che ci porta ad abbandonarci non alla speranza terrena d'essere salvati da una macchina, ma d'essere accolti nell'abbraccio tenero di quel corpo di Padre-Madre. C'è un quadro di Rembrandt all'Ermitage di San Pietroburgo. Si racconta che abbia spinto a conversioni. Il figliol prodigo affonda il volto scheletrico nel ventre del Padre che lo abbraccia. La mano sinistra del Padre è di possente fattura maschile, la destra, di delicata forma femminile, emerge da un lembo del mantello con l'interno azzurro. E' questa la rappresentazione della morte? Rileggendo la Lettera Pastorale del cardinal Martini la risposta è «sì».
«Quando la prospettiva della morte ci spaventa e ci getta nella depressione, ecco che dal profondo del cuore riemerge un presentimento e la nostalgia di un Altro che possa accoglierci e farci sentire amati. La sua figura ha al tempo stesso tratti paterni e materni. E' pertanto evocazione dell'origine, del grembo, della patria, del focolare, del cuore a cui rimettere tutto ciò che siamo, del volto a cui guardare senza timore». Chiudere gli occhi nell'«eterno riposo» significa riaprirli nella limpidezza della Sorgente che ci ha generati, fatta anche delle lacrime della vita mortale che non vanno perdute.
«Ostentare ricchezza, potere, sicurezza, salute, attivismo sono espedienti per esorcizzare l'angoscia del tempo che ci sfugge dalle mani» diceva Martini in un altro contesto, rammentandoci come la visione quotidiana del bianco e del nero debba essere rovesciata. Ciò che vediamo bianco - salute, successo, denaro - in realtà è il riflesso del timore di ciò che crediamo nero - la morte - che invece è come per San Francesco «la sorella» che ci prende per mano per riportarci nell'amore da cui partimmo. «Sentiamo quasi una certa invidia e una profonda nostalgia per la libertà di spirito, la scioltezza spirituale e la gioia di Francesco d'Assisi di fronte alla morte» diceva Martini il 3 ottobre 1995, vigilia della festa del Santo Patrono d'Italia.
Invidia: pulsione che si rivolge ai detentori di beni materiali, mentre in questo caso è diretta verso chi ha raggiunto la bellezza di una libertà da tutto ciò che può significare mondo. «Il motivo del «ritorno» soggiace alla parola ebraica shuv che esprime il cambiamento del cuore e della vita» scrive ancora Martini. «E mi sono riappacificato con l'idea di morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremo mai a fare un atto di piena fiducia. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre un'uscita di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente. Di Dio».